Pellegrinaggi in Sicilia
- 27 Maggio 2013 - 14:49
- 0
Ieri, Domenica 26 Maggio 2013, in occasione dell’Evento Donna-Madonna nel Terzo Millennio (link), organizzato dall’editore Francesco Urso, Elisabetta Ventura e Marianna Buscema, in collaborazione con il Museo del Costume di Scicli, sono stato invitato a percorrere sommariamente con un intervento verbale la storia dei pellegrinaggi nella nostra area. Trascrivo qui di seguito l’intervento stesso:
Per cercare di affrontare uno studio sui percorsi, i cammini di congiungimento ai siti chiave del pellegrinaggio medievale – almeno per quello che riguarda l’area iblea e in particolare il territorio sciclitano – si può probabilmente procedere solo a tentoni e con metodo deduttivo. Ma ho il dubbio che si tenda più all’induzione, essendoci insicurezza sull’individuazione di ciò che è “universale” e di ciò che è “particolare”. Ad ogni modo, la difficoltà maggiore in questa ricerca è causata della scarsezza di documenti cartacei e sostanziali. Con documenti sostanziali intendo riferirmi a tutto ciò che documenta in sostanza l’ipotesi che si vuole accreditare. Ad esempio un monumento, una chiesa, una iscrizione, e così via. Uno dei punti di partenza, nella questione che ci riguarda, potrebbe essere il dato storico che certifica, sino alla seconda metà del settecento, un caricatore riservato ai Cavalieri di Malta, presso il porto di Scicli (Marsa Shiklah) in Sampieri, ed uno stesso Cavaliere risiedente in Città con funzione di Ricevitore dell’Ordine Gerosolimitano. Così ne scriveva nell’ottocento il Canonico Pacetto, riprendendo a sua volta la descrizione fatta dal settecentesco cronista Carioti, arciprete sciclitano:
“Sin da quando l’illustre Ordine Gerosolimitano si stabiliva nell’Isola di Malta, mantenne sempre in Scicli uno de’suoi Cavalieri, col titolo di Ricevitore, a somiglianza delle primarie Città del Regno, per tosto occorrere a’bisogni dell’Ordine dell’Isola; avendo sempre a sua disposizione una Feluca, da servirle per dare sicuro ricapito a’grossi Plichi della Posta, che da varie parti della Sicilia, ed anche dall’estero, pervenivano a questo Ricevitore.”
Che il porto di Scicli fosse un punto strategico, crocevia di merci e popolazioni disparate, se ne ha contezza storica, oltre che mitologica. Per quest’ultima categoria si può riportare il passaggio sciclitano di Ercole (la cui prova era vantata dai cronisti partendo dal leone impresso sul vessillo cittadino), di Dedalo, e poi successivamente di San Paolo e Sant’Antonio. Leggende interessanti, e persino credibili nel caso di San Paolo. Intendo dire che per una questione di rotte il passaggio da Malta alla Sicilia, specie nella parte sudorientale, era facilitato in direzione di Sampieri e non di Pozzallo o di Siracusa, come oggi si potrebbe erroneamente dedurre. Il che rende dunque credibile la leggendaria storia che accredita la suola paolina calcante per prima la terra siciliana in area sciclitana. In effetti bisogna pur dire che, per quanto la mitologia rimandi metaforicamente alla realtà e la leggenda possa risultare persino credibile, questi esempi ricordano i sin troppo frequenti soggiorni di Garibaldi in tutto lo Stivale. Ma se l’eroe dei due mondi riposava ad ogni città, tra le tante che ne annoverano il passaggio, quando avrà trovato il momento di unificare l’Italia?
Occorrerà evitare di suffragare l’ironia conseguente, e cominciare le indagini dai documenti storici (per quanto anch’essi spesso vadano a coincidere con la poesia). Uno di questi è la descrizione di Scicli che rende Idrisi nel famoso “libro di Ruggero” (intorno al 1150 d.C.). Ne riporto alcuni tratti, che fanno il paio con quanto già trascritto dal canonico Pacetto:
“Distante dal mare tre miglia circa, è paese di singolare prosperità, popolato e rigoglioso, dotato di una campagna fiorente, di mercati a cui affluiscono prodotti di ogni paese.”
E poi ancora:
“Ci si arriva via mare dalla Calabria, dalla Tunisia, da Malta e da altri territori.”
È il caso di ricordare che all’indomani della riconquista normanna dell’Isola, il Gran Conte Ruggero aveva deciso di lasciare Scicli alla Corona, come territorio demaniale. Mentre feudali divennero Modica e Ragusa, anche se quest’ultima in mano a Goffredo, figlio dello stesso Gran Conte. A motivo di tali decisioni, lo stesso Ruggero sembrava addurre l’importanza generale del porto sciclitano. Si coglie immediatamente il nesso tra questi dati e i pellegrinaggi. Poiché è proprio da tale periodo che prende avvio un rinnovato interesse per il cammino di fede verso i luoghi sacri della cristianità: Gerusalemme, Roma e Santiago. Tutti luoghi che come punto di partenza, in Sicilia, non potevano prescindere dall’avvio in Messina. Ma andiamo con ordine: Dal centro al nord della Penisola, alle Alpi, sin dal XIII secolo si cominciò a parlare di via francigena. Si trattava di una serie di percorsi, che avrebbe accompagnato il pellegrino sino al punto di avvio del cammino vero e proprio, quello prescelto per il proprio pellegrinaggio (appunto Gerusalemme, Roma o Santiago). Atto dovuto, almeno una volta nella vita di ogni credente, in maniera del tutto analoga al pellegrinaggio musulmano verso La Mecca. Per quanto si viaggiasse più per mare che per terra, non è vano ricordare che esisteva una via Francigena anche in Sicilia, francigena nella denominazione ovviamente solo per la funzione di collegamento, appunto, al porto di Messina. Il porto siciliano, come già detto, era punto di arrivo e di ripartenza. La via francigena di Sicilia si presentava come un percorso circolare, ricoprente l’area dell’entroterra siculo, lambiva in quattro punti le zone portuali più importanti dell’Isola: Gela, Siracusa, Messina, Palermo. Si collegavano a questa ulteriori percorsi, vie, e proprio su una di queste ultime si trovava Scicli. Anzi, a voler essere precisi, una di queste vie di collegamento alla via di collegamento principale (la via francigena di Sicilia), partiva da Marsa Shiklah, risalendo poi verso Scicli. Un documento sostanziale, un ricordo, lo si può ravvisare volgendo gli occhi verso la collina della Croce, ivi ancora si staglia in alto una Croce di Malta, sul campanile della chiesa del Calvario, e non lungi dal Convento di S. Maria la Croce, fondato da Francescani di ritorno dalla Terra Santa. Poi da Scicli il tragitto si muoveva verso Modica, dove è ancora presente una trecentesca chiesa templare intitolata in modo magniloquente a San Giacomo (link, rimando ad un altro mio articolo per ciò che riguarda) e infine giungeva a Ragusa dove è attestata una chiesa in passato appartenente all’Ordine dei Cavalieri di Malta, dedicata al culto della Madonna Odegitria. Chiesa riedificata sul’Ospitale dell’Ordine di San Giovanni, notoriamente succedaneo di quello Templare. Nella stessa Ragusa, ancora oggi è testimoniabile l’esistenza di un Ordine di San Giacomo della Spada, presso l’omonima chiesa all’interno dei giardini iblei, ed è possibile scorgere i segni monumentali e grafici che rimandano al culto del Santiago Matamoros.
Sembra quasi che ogni stazione, ogni ospitale sia situato appositamente alla distanza necessaria per il riposo quotidiano del pellegrino in cammino. E probabilmente è proprio così, accertato che questa era la metodologia viaria perseguita sia sul vero e proprio Cammino di Santiago, quanto lungo la via per Gerusalemme.
Mi sembra poi credibile il pensare la via francigena di Sicilia come collegamento alle vie che conducevano al mare, e non il contrario. Tra queste appunto quella per Scicli. Questi sono i miei dubbi in merito all’individuazione dell’universale e del particolare. Mi rendo più chiaro, come già preannunziavo, il sistema prediletto per il viaggio – almeno sino a tutto l’ottocento – in Sicilia, era quello marittimo. Ciò per più motivi, che vanno dalla velocità alla sicurezza. E perciò deducibile che una via interna, per quanto “santa”, poteva infine risultare poco sicura per un pellegrino. Immaginiamo un pellegrino sbarcato a Palermo, o meglio ancora a Trapani, esso si sarà mosso in parte attraverso la cosiddetta via francigena, e solo per raggiungere la via del mare che maggiormente lo interessava, ad esempio quella verso Marsa Shiklah. Quello che intendo dire è che statisticamente i flussi di pellegrini dovevano essere più diretti verso i porti che viceversa.
Il problema della sicurezza del pellegrino, è noto, fu il motivo scatenante alla base della nascita dell’Ordine Templare. Non c’è il tempo per affrontare il tema della presenza dei Frati-Cavalieri nell’Isola, i successivi Ospedalieri e Maltesi, o gli antagonisti Teutonici. Si dovrebbe cominciare ad approfondire sul forte legame sussistente tra le Priorie Benedettine di San Filippo d’Agira e quella Sciclitana di San Lorenzo. Ricordando che quella di San Filippo era collegata all’abbazia di S. Maria dei Latini a Gerusalemme. Una donazione (di fantasia quanto quella di Costantino) citata in un documento del 1168, “trasformava una bolla papale, secondo cui da allora in poi tutte le proprietà della fondazione palestinese dovevano dipendere da S. Filippo di Agira” (Il Monachesimo Latino nella Sicilia Normanna, di Lynn Townsend White Jr.). L’importanza che aveva assunto San Filippo è resa chiara nel 1187 allorquando Saladino prese Gerusalemme e i monaci di S. Maria dei Latini fuggirono in gran parte presso la Casa di Agira.
La forte presenza gerosolimitana nel territorio, il connubio che si generò per mezzo della agiografica descrizione più o meno storica dei cronisti normanni, probabilmente diede avvio ad un sistema iconografico che legava imprese belliche e santi. Non ho usato volutamente il termine “milizie” (al posto di “imprese belliche”) per evitare di suffragare più del dovuto una dubbiosa dicitura come quella di Madonna delle Milizie. Mi propongo cioè di restare al sicuro dato dialettale che si ferma a quel “milici” dai rimandi pagani (link ad alcune informazioni su Bacco Milichio). Seppure, in pieno spirito scettico, non nego la possibilità che quel “milici” possa davvero essere la trasposizione di “militi” (link ad un argomento in favore). In ogni caso la leggenda sciclitana della Madonna che appare per coadiuvare le esigue forze normanne, mentre si stanno per scontrare mortalmente contro l’infedele, non solo ha degli analoghi sulla stessa zona iblea: dalle vaghe similitudini con San Giorgio, a quelle esemplari con il Santiago Matamoros campeggiante sulla facciata di San Giacomo in Ragusa inferiore. Le analogie sono infinite in tutto il territorio che fu dei Normanni, nel sud Italia. La volontà di quei cronisti, primo tra tutti Goffredo Malaterra, era quella di accreditare religiosamente e da un punto di vista latino, la crociata normanna contro i mori di Sicilia. Così le apparizioni sono molteplici: a Ravanusa la Madonna appare a Ruggero durante l’assedio della città, fornendogli acqua per dissetarsi; a Cerami sono addirittura in due a partecipare alla battaglia, San Michele e San Giorgio; gli esempi e le apparizioni – mi verrebbe da dire – sono infinite. In realtà, con poco afflato mistico, il numero si restringe ai luoghi e le città oggetto della riconquista normanna. Su queste figure salvifiche, il posto d’onore lo va assumendo Santu Iacu. Ed è da questo dato che deve essere ripreso il cammino, con fede o con interesse laico e storico, per intraprendere comunque un percorso di riabilitazione dell’io. Bisogna riavvolgere il cosiddetto nastro, e riprendere da dove si è sbagliato. Occorre ridiventare poeti. Riporto, per concludere, un passo tratto da un racconto di Daudet:
«È vero, pastore, che siete un po’ stregoni, voialtri?»
«Niente affatto, signorina. Ma qui si vive più vicini alle stelle e si sa meglio della gente di pianura quello che vi succede».
Guardava sempre in alto, con la testa appoggiata sulla mano, avvolta nella pelle di montone come un pastorello celeste:
«Quante! Che bello! Non ne ho mai viste così tante! Per caso, pastore, sai come si chiamano?».
«Ma certo, padrona. Guardi, proprio qui sopra c’è la Via di San Giacomo (la via lattea). Parte dalla Francia e va dritto sulla Spagna. È stato San Giacomo di Galizia che l’ha tracciata per indicare la strada al prode Carlomagno quando faceva guerra ai Saraceni…».
Gaetano Celestre